Ciao famiglie,
sono Isabel e mi rivolgo a voi come facilitatrice che vive la quotidianità dei bambini del Nido Colorado.
Quando provo a raccontare, ai non addetti, che lavoro faccio le domande sono di solito due:
- La richiesta di chiarimento, perché “forse – si chiedono- non ho mica capito bene”: “ma quindi tu insegni inglese al nido?”
- Lo sgomento: “Ma non sono troppo piccoli? Caspita, questi bambini devono iniziare con l’inglese già al Nido…”
A questo punto, io che amo il mio lavoro e amo, in maniera smisurata, la disciplina linguistica mi lancio in ore di spiegazioni riguardo a come svolgo il mio lavoro e perché ha senso farlo, inserendo una quantità di aneddoti più o meno folta di occasioni in cui “quello che agli altri sembrava un errore a me e le mie colleghe faceva quasi piangere di gioia”.
Cercherò di rendere i tempi di lettura di questo articolo più brevi rispetto ai tempi di racconto che i miei conoscenti citati sopra hanno dovuto subire ma di essere altrettanto, o magari più, efficace nel mio racconto. Get yourself a cup of coffee and let’s get started!
Io non insegno inglese ai vostri figli: non avrebbe senso, non sarebbe possibile e, tanto meno, necessario.
Pensate a come avete imparato a parlare la vostra lingua madre, o meglio ancora, il dialetto: non credo sia possibile individuare un momento, una persona o un libro specifico che vi abbiano esplicitamente insegnato una di queste lingue.
La lingua è parte della nostra esperienza quotidiana e, stando ad alcune teorie, la necessità di parlare è nata proprio da bisogni assolutamente primari di noi umani. Abbiamo fame, sete, sonno, voglia di stare con i nostri genitori o di giocare e per soddisfare questi bisogni dobbiamo dichiararli! Ecco che le prime parole pronunciate, anche dai bimbi che sentono tutte le sere un meraviglioso racconto sui mondi più fantastici, non sono legate a quei mondi fantastici ma alla realtà che vivono in prima persona.
Quando entro in sezione quindi cerco di osservare l’ambiente in cui i bambini si muovono, cerco di creare una relazione con loro e con le loro figure di riferimento, gioco, porto me stessa e quello che conosco del mondo per creare delle occasioni di inserimento della lingua che siano piacevoli e significative per loro.
In sezione parlo e gesticolo tanto, esprimo emozioni e sensazioni anche tramite il mio volto e la modulazione della mia voce: tutto questo non farebbe parte della mia personalità piuttosto timida e schiva quando mi trovo tra i miei coetanei, ma è assolutamente indispensabile e diventa spontanea quando faccio il mio lavoro. Come potrebbero i bambini capire se sono sorpresa, felice o preoccupata se parlassi come Siri o se non mi aiutassi con tutto ciò che possiamo esperire tramite tatto, vista, olfatto e gusto?
La mia proposta linguistica si infiltra quindi in tutti i contesti e le routine: un mix equilibrato di esperienze di scoperta del mondo tramite proposte pensate ad hoc e momenti di vita quotidiana.
I momenti di gioco libero diventano un’occasione per riproporre frasi (richieste, proposte, parole legate ad alcuni ambiti specifici) che pronuncio anche nei momenti di routine: scelgo le mie parole con attenzione, ne tengo traccia e non dimentico mai che la lingua non passa solo attraverso uno dei cinque sensi (l’udito).
La frase usata tante volte nel gioco del nascondino diventa preziosa nel momento in cui dobbiamo andare alla ricerca di qualcosa di specifico nelle nostre uscite in campagna o nel libro che ci supporta quando invece stiamo dentro.
Consapevolezza di quando e come parlo e conoscenza del bambino e dei meccanismi tramite i quali si acquisisce una lingua (e, di conseguenza, di come si può facilitare la sua acquisizione) sono indispensabili per svolgere un buon lavoro. E poiché si sa, due cervelli sono meglio di uno, per me è indispensabile confrontarmi, raccontare e rivalutare insieme alle altre facilitatrici At Home. Everywhere. cosa ho fatto in sezione, come l’ho fatto e come posso andare a rinforzare quell’esperienza.
E ora veniamo al secondo punto, un punto che si muove, a seconda delle conoscenze che abbiamo, su una retta ai cui due estremi abbiamo le seguenti posizioni:
- ancora non sanno parlare italiano, rischi di confonderli.
- i bilingui sono dei geni.
Nonostante potrebbe farmi comodo sostenere il secondo estremismo, non lo farò. I bilingui (e attenzione perché tutti noi che parliamo un dialetto siamo bilingui a tutti gli effetti da un punto di vista linguistico e cognitivo) non sono dei geni, anche se ci sono tantissime ricerche che dimostrano alcuni vantaggi cognitivi del bilinguismo.
I bilingui non imparano a parlare più tardi, anche se ci sono ricerche che possiamo facilmente travisare in questo senso se ci limitiamo a una lettura superficiale di alcuni articoli.
Proverò a fare ordine: ogni bambino che non abbia altri problemi specifici (ad es. la sordità: è difficile imparare una lingua che non sento, la lingua degli ipoacusici infatti si sente con gli occhi e si parla soprattutto con le mani) ha il potenziale per imparare qualsiasi lingua che si trovi nel suo ambiente. Anche prima di nascere iniziamo a sentire e ad abituarci ai suoni e al ritmo tipico della lingua parlata dai nostri genitori, ci specializziamo con una velocità sorprendente e facciamo del nostro meglio per rendere il processo di acquisizione della lingua il migliore possibile nei termini di “minima spesa, massima resa”. Questo ha dei vantaggi e degli svantaggi: tutto ciò che non mi serve, perché nella/e lingua/e del mio ambiente non è presente, io inizio a non saperlo più distinguere tanto bene. Questo mi permette di diventare molto bravo a riconoscere e riprodurre suoni in tempi piuttosto brevi ma allo stesso tempo fa sì che quando nella vita incontrerò lingue diverse farò una gran fatica a discernere i suoni e il ritmo specifico di quella lingua e questo ha un effetto disorientante.
Ha senso quindi proporre la lingua inglese al nido? Sì, perché possiamo tenere aperta una porta da cui possono entrare suoni tipici di quella lingua in un periodo in cui siamo programmati per natura a farli entrare per farli restare. Minima spesa, massima resa: ascolto e incamero senza sforzo. E da studentessa di lingue non sto qui a spiegarvi la fatica che ho fatto per capire come allenare il mio orecchio e il mio apparato fono articolatorio a riconoscere e riprodurre le vocali inglesi: se solo avessi avuto una brava facilitatrice di lingua inglese (o di qualsiasi altra lingua, for that matter) al nido!
Ma quali sono i vantaggi meno ovvi di un progetto di bilinguismo al nido? Il mio preferito è il fatto che i bambini sviluppano un’empatia e un intuito comunicativo in senso ampio che un monolingue difficilmente svilupperà. Da cosa dipende? Se io sono bilingue, perché mamma e papà parlano lingue diverse o perché a casa si parla una lingua e a scuola un’altra dovrò imparare molto presto ad ascoltare e osservare il mio interlocutore chiedendomi: “che lingua devo usare per farmi capire da lui/lei?”. Un allenamento ad assumere un punto di vista diverso dal mio e a impegnarmi per trovare una strategia comunicativa che mi permetta di essere compreso da tutti.
E non abbiate paura: i bambini bilingue non imparano a parlare più tardi dei monolingui, non hanno un vocabolario più ridotto. I bambini, come in tutti gli altri aspetti della loro crescita, devono essere osservati nella loro completezza: un bambino bilingue può avere un vocabolario ridotto rispetto al monolingue se io analizzo solo un pezzetto della sua competenza linguistica ma non se lo osservo nella completezza. Il bilingue magari conosce meno termini della lingua A ma conosce tantissimi termini della lingua B (alcuni intraducibili nella lingua A, perché la lingua è portatrice sana di cultura) e se io faccio una semplice addizione scopro che in realtà, numeri alla carta, forse conosce più parole del suo amico monolingue.
Sperando di avervi incuriosito quel po’ che basta a farvi mettere in dubbio quello che ho scritto e andare a verificarlo, magari anche tramite l’esperienza diretta con noi!
Hope to see you soon
Isabel